mercoledì 23 marzo 2011

[L'angolo del tazebao] E se i buoni non fossero così buoni?

Uno scenario troppo semplificato che può riservare sorprese

di Maurizio Matteuzzi

I buoni contro i cattivi, i nostri contro i loro, il 7° cavalleggeri contro gli indiani. Una semplificazione molto televisiva per un caso molto complicato. Il cattivo non può essere che Gheddafi. Il suo ruolo se l'è guadagnato di diritto in 40 anni di potere assoluto, abusi ed eccessi, bizzarrie ed eccentricità (anche se non tutto quello che ha fatto è stato una schifezza).

I buoni sono i ribelli di Bengasi (ribellarsi è giusto), i «rivoluzionari del 17 febbraio» che hanno strappato a Gheddafi tutto l'est libico, l'indocile Cirenaica. Quelli che quasi tutti fin dall'inizio hanno chiamatio i «civili» (così da accreditare la guerra giusta dell'Onu). «Civili», ma non come quelli del boulevard Bourghiba di Tunisi, della piazza Tahir del Cairo, della Piazza della perla di Manama. Dalle stesse immagini tv i «civili» di Bengasi sono miliziani armati di tutto punto, con tank e contraerea capaci di abbattere aerei governativi e pilotare jet da combattimento.

Sono loro che, una volta conclusa la guerra umanitaria dell'Occidente e liquidato finalmente Gheddafi, saranno la nuova Libia.

Ma chi sono «loro», i buoni del film? E come sarà la nuova Libia post-gheddafiana e quindi, presumibilmente, democratica, rispettosa delle libertà civili e dei diritti umani, etc, etc?

La Libia è un boccone troppo appetitoso e la fretta degli umanitari (guidati dal triste clown Napoleone Sarkozy) a correre in suo soccorso è un po' sospetta. E lo Yemen? Il Bahrein? E la Birmania, perché no la Birmania? E perché no la Palestina? (La Palestina perché no e basta, si capisce).

La scommessa dell'Occidente umanitario è a scatola chiusa. E rischiosa. Perché i ribelli «civili» di Bengasi, ancorché (per ora) sconosciuti, hanno un documentato curriculum di fondamentalismo islamico, armato e militante (quindi anti-occidentale), o, al contrario, i volti più conosciuti, non sono quel che si dice una garanzia.

Dice Massimo Introvigne, rappresentante dell'Osce (Organizzazione per la sicurezza e la cooperazione in Europa) per la lotta contro razzismo, xenofobia e discriminazione: «Si conoscono alcuni nomi di capi di origine tribale che sembrano in posizioni di forza nel cosiddetto governo provvisorio di Bengasi, il Consiglio nazionale libico. Si sa per esempio che il suo segretario è Mustafa Mohammed Abud al Jeleil, che fino al 21 febbraio era il ministro della giustizia di Gheddafi e nel dicembre 2010 era stato inserito da Amnesty international nella lista dei più efferati responsabili di violazioni dei diritti umani del Nord-Africa». L'altro uomo forte dei ribelli «civili» di Bengasi è «il generale Abdul Fatah Younis, già ministro dell'interno di Gheddafi e prima capo della famigerata polizia politica del regime»... Personaggi, conclude Introvigne, che «non sono "i sinceri democratici" dei discorsi di Obama, ma alcuni tra i peggiori arnesi del regime di Gheddafi, che aspirano a cacciare il colonnello per mettersi al suo posto».

Arnesi riciclati del gheddafismo che saranno spazzati via dai «giovani rivoluzionari» e dai vecchi democratici sopravissuti al gheddafismo? Forse. Speriamo. Ma è un fatto che la Libia, e l'est della Libia, risultano essere il primo esportatore al mondo pro-capite (ovvero in rapporto alla popolazione) di cambattenti e «martiri» («suicide bomber», leggi kamikaze) in Iraq. Di più di quelli venuti da qualsiasi altro paese arabo-islamico e anche dall'Arabia saudita, culla di Bin Laden e dei terroristi dell'11 settembre.

Questi dati non vengono da Gheddafi, che per sua comodità attribuisce la rivolta dell'est a al Qaeda, ma dal Combating Terrorism Center di West Point, dal data base del Pentagono e dai cablo diffusi (ieri) da Wikileaks. I dati di West Point e del Pentagono si basano sui «Sinjar documents», trovati dalle forze Usa nell'ottobre 2007 in un raid in questa località al confine Iraq-Siria, e dipingono uno «scenario allarmante» sui ribelli libici di Bengasi e Derna.

Dei 700 jihadisti, la cui entrata in Iraq è stata «censita» (per nazionalità) fra il 2006 e 2007, il 19% veniva dalla Libia, in particolare da Derna (il 60%) e Bengasi (24%) che vantano molti «Afghan veterans» fra le loro fila. Derna è la prima fonte di jihadisti in Iraq, 52 contro i 51 di Ryadh (ma la città della Cirenaica ha 80 mila abitanti, la capitale dell'Arabia saudita 4 milioni), seguite da Mecca e da Bengasi. Anche fra i kamikaze censiti i «martiri» libici sono i primi, 85% contro il 56% degli altri.

Stesso scenario dipinto dai cablo di Wikileaks: l'est libico come terreno fertile per il radicalismo islamico. E Vicent Cannistraro, ex capo della stazione Cia in Libia, sostiene che fra i ribelli ci sono molti «estremisti islamici capaci di creare problemi» e che sono «alte le probabilità che gli individui più pericolosi possano avere influenza nel caso dovesse cadere Gheddafi». Auguri.

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