Con il via libera dell'Onu, l'appoggio della Nato, il sostegno di alcuni Stati mediorientali “alle dipendenze” dell'Occidente, è iniziata da alcune settimane la guerra in Libia. Sui giornali viene chiamata “guerra umanitaria”, si annunciano “no fly zone”, ma noi sappiamo che è una guerra, e che le “nostre bombe” non porteranno la libertà in Libia, così come non lo fecero in Afganistan o Iraq, o in Jugoslavia. In Italia l’intervento è stato accolto con favore: il Presidente della Repubblica Giorgio Napolitano ne è il primo sostenitore, anche l'“opposizione” l'ha accolto con favore, nelle trasmissioni televisive i politici litigano su come mai il ruolo dell'Italia all'interno della guerra non è di sufficiente rilievo, dando tutti per scontato che sia un’azione giusta e necessaria. Ma, mentre la politica istituzionale si occupa di elogiare l’intervento italiano in territorio libico, nel nostro paese questa posizione non viene accolta tout court e il dibattito si apre... Un dibattito importante e necessario che però fa fatica ad accendersi socialmente: per l'inesistente copertura dei media mainstream del dissenso alla guerra, per la sostanziale unanimità politica con cui si sta conducendo il conflitto e la faziosità strumentale delle argomentazioni di chi opportunisticamente la critica (vedi Lega Nord). Un dibattito che resta piatto anche negli ambienti della società d'opinione presumibilmente progressista, che si ferma alla dicotomia “o con Gheddafi o con la Nato”. Non possiamo accontentarci di quanto ci viene propinato quotidianamente e, per avere una visione più lucida e consapevole di quanto sta accadendo a due passi da noi, anche in “nostro nome”, sentiamo la necessità di porci alcuni interrogativi.
La politica e la stampa si schierano di fatto con i ribelli, noi ci chiediamo: chi sono questi “ribelli”? L'opinione accettata è che siano libici che lottano contro il rais Gheddafi per la libertà del popolo libico, ma siamo sicuri che sia così? Che Gheddafi sia un tiranno è indiscutibile, e non lo scopriamo oggi, ce lo ricordano quaranta anni di violazioni e di soprusi, per quanto sia stati anni durante i quali i nostri governi han sottoscritto e pattuito ogni sorta di accordo con il rais. Ma siamo sicuri che gli insorti stiano lottando “per la libertà del popolo libico” e che tutto ciò non sia anche emanazione della contesa tra fazioni/tribù di potere? O ancora, è possibile che le legittime istanze di libertà vengano sostenute ed utilizzate strumentalmente dai potentati libici – o da coloro che hanno l'ambizione di diventarlo - per un riassetto di potere? Per rispondere a queste domande dovremmo capire chi sono questi ribelli e qual'è la loro guida, quali i loro progetti ed reti di amicizie...
Un'altra domanda che ci sorge spontanea: come mai interveniamo in Libia e non in Siria o in Bahrein dove sono avvenute efferate repressioni di piazza? Perché non si creò una “no fly zone” quando Israele bombardò la Striscia di Gaza nell'inverno 2008/09, uccidendo 1400 persone e bombardando obiettivi civili? E' evidente la diversità con la quale sono state affrontate (o addirittura ignorate!) situazioni come quella palestinese o ruandese e la velocità con cui invece si è deciso di intervenire in Libia... Per ricercare la causa di questa disparità di interesse da parte della comunità internazionale, degli Stati dell'Occidente, dobbiamo chiederci quale sia la differenza tra la Libia e paesi come la Siria, il Bahrein o la Palestina. Per rispondere a questa domanda dobbiamo quindi andare ad indagare le cause reali della necessità della guerra, e chiederci quali siano le peculiarità economiche e politiche del paese contro il quale è stata scagliata nuova “guerra umanitaria”: la Libia è infatti ricca di petrolio e gas, ricchezze energetiche che alimentano l'Occidente e che sono il primo obiettivo di tutte le parti in lotta (Gheddafi, ribelli, Occidente); si trova nel mezzo del centro nevralgico della rivolta araba, in mezzo ai due punti più caldi del Maghreb (Tunisia ed Egitto), che molti vorrebbero vedere raffreddati...
Sono queste le ragioni per le quali sentiamo il bisogno di aprire degli spazi di approfondimento e di dibattito, partendo dal luogo che ci è familiare e che viviamo quotidianamente: la nostra facoltà. Scienze Politiche si definisce “facoltà di capire il mondo”, e allora armiamoci di strumenti per provare “a capire” quest'ennesima guerra, per elaborare punti di vista che rompano e rifiutino lo schema che ci viene imposto: “o con Gheddafi o con la guerra umanitaria”. Per questo stiamo raccogliendo alcuni articoli interessanti usciti in questi giorni su riviste e quotidiani, che stiamo inserendo nel "Tazebao", la bacheca che abbiamo allestito in facoltà - in via Plana - e si può anche trovare in versione digitale e ampliata sul nostro blog. Ma soprattutto stiamo organizzando un ciclo di incontri con molteplici invitati, di Torino e di altre città d'Italia, che di volta in volta ci daranno coordinate nuove per muoverci con maggiore chiarezza all’interno della dimensione di guerra della Libia, guardando a quanto avvenuto da dicembre in poi in tutta l'area del Maghreb, sconvolto dalle rivolte e dalle rivoluzioni che hanno mandato in soffitta vecchi sistemi di potere, immaginando e sognando un altro Nord Africa!
Collettivo di Scienze Politiche contro la guerra
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